Introduzione
Dialogo euristico, dialogo in generale e ascolto attivo da qualche tempo hanno attirato la mia attenzione. Molti bravi formatori, nel mio vecchio lavoro di consulente alle vendite, mi hanno trasmesso la passione per il dialogo, la ricerca, la scoperta, l'attenzione nell'ascolto, il sapere ricapitolare quanto detto dall'interlocutore e molte altre buone pratiche del venditore etico.
A scuola accade lo stesso. Per esempio con i nuovi studenti del primo anno, quando per la prima volta arrivano nella nostre scuole e si lasciano scoprire a poco a poco, quando c'è bisogno che trovino il primo terreno fertile all'ascolto. Tale terreno deve essere preparato dagli educatori come una sorta di maggese. Gli educatori devono prepararsi al dialogo e all'ascolto, devono prepararsi ad accogliere i loro mondi, i loro vissuti, le loro esperienze, i loro racconti, i loro dubbi, le loro domande, i loro sfoghi, il loro desiderio di imparare. Tutte queste cose arriveranno come la pioggia estiva arriva dopo che il contadino in maggio ha preparato il terreno.
Riflettere sull'azione di ascoltare e dialogare coi ragazzi è una questione dunque a me molto cara. È una pratica fondamentale per intrattenere la giusta relazione educativa coi ragazzi. È anche alla base di ogni progetto podcast, come quello di questo sito.
Numerose sono le citazioni che in diverse occasioni mi sono capitate sotto gli occhi e che sono riferite alla pratica della pedagogia dell'ascolto legata alla figura di Alessandra Ginzburg. Due sono i contributi qui riportati. Il primo è un articolo del 1984 uscito sulla rivista Cooperazione Educativa ed un altro è un importantissimo volumetto uscito nel 1979. Si tratta di «Premessa ad una pedagogia dell’ascolto nella scuola dell’infanzia», Comune di Roma, assessorato Scuola.
Il volumetto è stato reperito col prezioso aiuto del maestro Giancarlo Cavinato del MCE, cui vanno i più sentiti ringraziamenti. Il volume è presente nella biblioteca del Centro di Documentazione della Pedagogia Popolare "Marika Aureli" di Roma.
Alessandra Ginzburg, Cooperazione Educativa 1, 1984.
Quella che segue è la trascrizione di un articolo di cui non ho reperito l'originale ma solo la lettura ad alta voce presente sul YouTube del Gruppo Territoriale di Roma del MCE. Si tratta di un contributo di Alessandra Ginzburg comparso sul 1° numero della rivista Cooperazione Educativa del 1984.
Azione formativa rivolta alle scuole dell'infanzia comunali di Roma.
Elaborazione praticata nel gruppo romano di via Venezia.
Anni ottanta.
Innumerevoli visite alle più disparate scuole materne non sono bastate a creare in me un'abitudine che attenuasse l'orrore per la condizione dei bambini nell'ambito delle istituzioni educative. Anche là dove dell'edilizia non assume caratteri decisamente carcerari lo spazio è quasi sempre anonimo senza traccia dei bambini che lo hanno attraversato nel corso del tempo. In uno spazio senza storia e senza memoria come si può conservare l'identità. I muri spogli o adorni di immagini stereotipate, la ripetitività infinita delle attività la scansione rigida del tempo, la produttività alienata dei lavoretti non sono solo il frutto dell'ignoranza o del ritardo culturale degli insegnanti, ma fanno parte di un preciso modello pedagogico che nel continuo richiamo alla passività e al conformismo fonda ed esprime una visione del mondo, ed è proprio questa visione limitata e coartante del mondo, che si deposita insidiosamente in ognuno di noi, impregna e paralizza la nostra creatività. [grassetto della redazione N.d.R.]
In realtà da quando è nata una forma dell'istituzione scolastica, si pensi alla scuola delle tavolette dei Sumeri, la costrizione a imitare modelli precostituiti è stata solo in parte giustificata dall'esigenza di trasmissione del sapere e di continuità dei valori di riferimento. Tributi questi necessari secondo Freud al mantenimento della civiltà. Più significativo è forse il bisogno inconscio, e perciò tanto più cieco e violento, di porre un argine al mondo infantile, la cui cultura irriducibile va negata, rimossa, non perché è diversa nei suoi contenuti e nelle sue forme, ma proprio perché è troppo vicina per non minacciare equilibri rassicuranti.
Impostare una pedagogia sull'ascolto significa innanzi tutto questo: imparare a non aver paura degli aspetti infantili che sono in noi e che ci inducono, se negati, ad annientare nei bambini la loro espressione tangibile attraverso l'arma potente dell'educazione.
Imparare ad ascoltare tuttavia è tutt'altro che facile. Implica una revisione totale del rapporto col bambino che non si conquista senza una dura, prolungata lotta interna. Da sempre infatti siamo abituati a proporre agli altri la nostra visione del mondo come l'unica possibile. Accettare che un bambino, per di più molto piccolo, ne abbia una propria, che è nostro compito aiutare ad esprimere invece che soffocare con frettolose risposte, è ancora più arduo. Ascoltare, ce lo insegna la pratica psicoanalitica, significa fornire al bambino una presenza costante, non intrusiva ma partecipe, attenta gesto come alla parola, pronta ad accogliere a sistematizzare senza opporre giudizi di valore o di veridicità, capace di sollecitare con una domanda discreta il proseguimento di un'indagine. Ascoltare, senza necessariamente proporre risposte, magari sotto l'usbergo[1] falsamente oggettivo della scienza, vuol dire trasmettere al bambino l'importanza di un processo di ricerca che non potrà mai avere una fine rassicurante e definitiva. Un educatore capace di ascolto arricchisce la comunità dei bambini di un dono prezioso: la passione della conoscenza, intesa come interrogazione appassionata sul mondo, sui suoi misteri. Egli è il garante che raccoglie, con strumenti adeguati, scrittura, fotografia, registrazione, la cultura collettiva del gruppo nel suo progressivo farsi. Gli restituisce una memoria della propria storia in cui riconoscersi. È la memoria infatti, che opponendosi al consumo frettoloso delle esperienze, costituisce con lettura continua degli avvenimenti, la condizione necessaria per la comprensione del divenire delle relazioni, del rapporto tra fantasia in realtà, dell'intreccio tra pensiero ed emozione, e proprio questo intreccio, che la scuola nega ad ogni istante, permette di dare corpo a una mente cioè alla globalità di cui il corpo è solo parziale metafora. Quando chiediamo al bambino di immagazzinare qualcosa di cui non ha esperienza diretta o di ricordare situazioni che ha già vissuto, l'espressione corporea può essere indubbiamente uno dei linguaggi più idonei a descrivere le sensazioni, svelare i misteri che la parola intuisce ma non sempre riesce ad esprimere. Ma il corpo, per eccellenza finito, non può esaurire da solo i contenuti della mente, potenzialmente infiniti. La tradizione pedagogica che nega il corpo al bambino, perché non riconosce peso e valore alla dinamica affettiva ignora l'esistenza dell'inconscio.
«Premessa ad una pedagogia dell’ascolto nella scuola dell’infanzia»
Del volume, dal link qui sotto, è a disposizione il PDF impaginato per essere comodamente stampato fronte e retro e piegato a mo' di opuscolo.
Armatura, corazza, protezione, difesa.